L'intervista
Maurizio Nichetti
fra palco e set
di Filippo Bordignon
Capelli arruffati, baffi chevron, sguardo stupito preceduto da un paio di occhiali dalle lenti rotonde, l’immagine di Maurizio Nichetti è ben impressa nell’immaginario degli amanti del teatro e del cinema di qualità. Classe 1948, milanese doc, Nichetti si laurea in architettura e, nel frattempo, lavora al Piccolo Teatro di Milano e studia mimo da Marise Flach.
Nel 1974 fonda la Cooperativa teatrale Quelli di Grock. Dal 1970 al 1978 lavora come sceneggiatore nell’oggi storico studio del disegnatore Bruno Bozzetto. Nel 1979 scrive, dirige e interpreta il suo primo film, “Ratataplan” nel quale recita un cameo Roland Topor, cofondatore del Movimento Panico insieme agli artisti Alejandro Jodorowsky e Fernando Arrabal.
Il suo talento eclettico gli consente di distinguersi nel grande schermo in veste di regista, sceneggiatore e attore grazie a titoli memorabili quali “Ladri di saponette” e “Volere volare” (in coppia con Angela Finocchiaro) come pure nel piccolo schermo, per il quale conduce una manciata di programmi memorabili (su tutti il varietà-colossal “Quo vadiz?” affiancato da Don Lurio e Sydne Rome) e dirigendo più di 150 spot pubblicitari. Nel 1998 è in giuria al Festival Internazionale del Cinema di Berlino e nel 1999 al Festival di Cannes.
Impressionante la mole di premi di caratura internazionale conferitigli; citeremo tra i tanti i tre Nastri d’argento per “Ratataplan”, “Ladri di saponette” e “Luna e l'altra”. Dal 2014 è direttore artistico della sede milanese del Centro Sperimentale di Cinematografia e titolare di un laboratorio di regia presso lo Iulm a Milano. La sua è una carriera più unica che rara, sintetizzata con penna originale e divertente nel libro del 2017 “Autobiografia involontaria” uscito per Bietti Editore.
Qual è la qualità meno ovvia che un mimo deve possedere?
Saper parlare molto bene, per riuscire a convincere un produttore a finanziargli lavori dove può, poi, permettersi il lusso di tacere.
Come spiegare a un giovane di oggi la profonda innovazione di un Buster Keaton?
Buster Keaton, Chaplin, Laurell & Hardy... basterebbe farli vedere. Non ci sarebbe nulla da spiegare. Saprebbero divertire anche oggi. Ma se un ragazzino non li ha mai visti deve “ringraziare” la sua famiglia, i suoi insegnanti e una televisione pubblica troppo impegnata a riproporci ogni sera il suo archivio storico al solo scopo di risparmiare soldi e pensieri eccessivi.
Qual è l’insegnamento più significativo che ha appreso durante gli anni di formazione al Piccolo Teatro?
Il Piccolo Teatro di Milano, ieri come oggi, è una scuola di vita, di serietà, di rigore. A un giovane come me, che iniziava allora con una prima tournée teatrale nelle piazze del decentramento culturale in una grande città come Milano, ha insegnato la bellezza e la magia di questo lavoro indipendentemente dal guadagno o dal numero di spettatori in sala.
Cosa rende grande un attore di teatro?
Una volta si diceva che doveva arrivare in platea; negli ultimi anni spesso si è detto che doveva arrivare dalla televisione... forse era il principio della fine.
Cosa si prefiggeva, sotto il profilo artistico, quando co-fondò la storica compagnia Quelli di Grock?
Speravamo solo di lavorare. Speravamo di avere almeno quindici allievi per poter selezionarne cinque o sei per una compagnia di pantomime. Il primo anno si sono presentati in 80, il secondo erano 250, dal terzo anno a oggi la scuola ha avuto una media di 500 allievi all’anno.
Artisticamente parlando, quando uno spettacolo teatrale può dirsi riuscito?
Quando sei contento di farlo anche davanti a un teatro vuoto. Ci sono spettacoli vergognosi che fanno l’esaurito tutte le sere, ma in camerino, quando ci si strucca, in fondo in fondo si prova un po' di vergogna.
Oltre all’indubbia tecnica, cosa fa della Finocchiaro la grande attrice che è?
Una maniacale pignoleria che mette in ogni dettaglio di ogni sua singola apparizione. Sia che si trovi in teatro o su un set cinematografico. Ma sarebbe irresistibile anche addormentata; ha un dono particolare per la comicità che non si può insegnare a scuola. Non a caso quando, giovanissima, si è iscritta alla scuola di Grock, l’abbiamo subito inserita in compagnia perché era già pronta ad affrontare il pubblico, che poi, negli anni, non l’ha mai abbandonata.
Nei primi Anni ’70 lei è già attivo nel mondo dei cartoni animati, una forma d’arte allora ancora considerata da alcuni di serie B. Da cosa crede nasca certa diffidenza rispetto al mondo dell’animazione e dei fumetti?
Quando lei parla di serie B immagino si riferisca alla disgraziatissima convinzione, tutta italiana, che i cartoni animati fossero solo cinema dedicato alla prima infanzia. Ma già negli Anni '70 questo era un parere da ignoranti. Chi lo diceva ignorava che “Biancaneve e i sette nani”, primo lungometraggio di animazione di Walt Disney, aveva vinto un premio Oscar e aveva incassato milioni di dollari in tutto il mondo. Disney ci ha creato un impero che oggi si aggiorna rifacendo in digitale, finto dal vero, tutti i suoi più recenti capolavori, da “Aladino” al “Re Leone” e “Dumbo”... alla faccia del cinema per bambini, la vera serie B è sempre stata quella che non ha mai saputo aggiornarsi, ma al massimo ha replicato sino allo sfinimento filoni e generi che riteneva di “cassetta”.
Il lungometraggio animato “Allegro non troppo” impiega come vago punto di partenza il “Fantasia” della Disney pervenendo però a una pellicola assolutamente originale e fortemente europea. Unitamente ai disegni di Bozzetto quali sono gli ingredienti impiegati per ottenere questo risultato?
Va ricordato che negli Anni ‘70 a Milano si concentravano gli animatori più forti d’Italia. Oltre a Bruno Bozzetto e Guido Manuli vanno ricordati Giuseppe Laganà, Walter Cavazzuti, Michel Fuzellier, Giovanni Ferrari, Giorgio Valentini, Antonio Dall'Osso, Giuseppe Cereda... tanti amici tutti presenti nel cast tecnico del film. Erano i tempi in cui si poteva ancora gestire un lungometraggio d’animazione tra amici, senza dover ricorrere ad anonimi disegnatori coreani.
Cosa ama maggiormente nello stile di Bozzetto?
Il pregio e il difetto massimo di tutto lo studio Bozzetto era la voglia di divertirsi lavorando, trascurando tutte le importantissime fasi di promozione, pubblicità, distribuzione e valorizzazione del prodotto. Noi lavoravamo e poi il film girava da solo per il mondo facendosi conoscere. Oggi non sarebbe possibile lavorare in questo modo: prima si studia il marketing e poi si realizza il film, divertendosi, però, molto meno.
Il sistema cinematografico italiano è attualmente in grado di permettere la valorizzazione di sceneggiatori, registi e attori realmente originali? Oggi sarebbe possibile girare e distribuire un piccolo capolavoro quale “Ratataplan”?
Sono passati quarant'anni da quel film... sarebbe strano se tutto fosse rimasto immutato. È iniziato un nuovo millennio, la Kodak non produce più pellicole e al cinema non si riesce più a distinguere l'immagine virtuale dall’immagine reale. Soprattutto è in crisi l'esercizio cinematografico, mentre mai come in questi anni la gente vive di immagini, fossero anche solo quelle dei selfie che continua morbosamente a produrre. Un piccolo film indipendente non avrebbe il tempo di crescere grazie al passaparola. “Ratataplan” è uscito al cinema Mignon di Milano ai primi di settembre e ci è rimasto sino a Pasqua. Oggi anche il film più popolare di Checco Zalone deve sfruttare un’uscita a tappeto per raccogliere decine di milioni di euro in poche settimane.
Nel film “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” ha affiancato due titani della commedia italiana: ha notato particolari differenze nell’approccio attoriale tra Sordi e Tognazzi?
Fermo restando che stiamo parlando di due belle persone, oltre che di due grandi attori, potrei sintetizzare che Sordi viveva per lavorare e Tognazzi lavorava per vivere.
Il piccolo schermo potrà mai recuperare quella creatività che possedeva un tempo persino nei cosiddetti programmi “generalisti”?
Sono lontano dalla televisione da qualche anno: non amo essere nominato per una eliminazione, né essere un giurato che aggredisce o elimina un collega o un concorrente. Credo che tutto il problema stia nella quantità di ore di trasmissioni che ogni canale deve produrre in un anno.
Come mai la Rai 2 di un grande professionista quale Freccero oggi non concede risultati di ascolti di particolare rilievo?
Non c’è più spazio per la ricerca, il rischio, la sfida. Occorre produrre sempre format già collaudati all’estero, al minor costo possibile. Credo sia difficile anche per Carlo Freccero, mio coetaneo, riuscire a imporre un’originalità e un coraggio che in passato aveva dimostrato di possedere.
A cosa sta lavorando in questo periodo? Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Passo molto tempo coi giovani. Tengo un laboratorio di regia allo Iulm di Milano e, da sei anni, dirigo la sede milanese del Centro Sperimentale di Cinematografia. Contemporaneamente scrivo e collaboro a progetti miei o a quelli che mi propongono, sempre con l’entusiasmo e la passione della prima volta.
Rispetto alla sua attività didattica qual è il messaggio che le preme veicolare alle nuove generazioni?
Credo che nell’insegnamento di una professione servano soprattutto l’esempio e il rispetto per una generazione, forse ancora acerba, ma senz’altro potenzialmente ricca di fantasia ed energie. Guai a quel docente che non riesce a imparare ogni giorno dai suoi allievi.
C’è un tipo di comicità che non la diverte?
Quella fatta in malafede solo per assecondare i presunti gusti del pubblico, senza un disegno, una strategia precisa. Il pubblico va stupito, sorpreso e, perché no, anche istruito, con una risata. Quando questo riesce vi assicuro che sono le risate migliori.