PRIMO PIANO - Alessandro Benvenuti: “Amo rischiare”
L'attore, autore e regista fiorentino racconta il suo modo di vivere il cinema, il teatro e la televisione, le sue esperienze e i suoi punti di riferimento. Un ritratto a tutto tondo di una delle personalità più eclettiche e di spessore dello spettacolo italiano.
di Filippo Bordignon
Regista, autore e attore di teatro, cinema e televisione, Alessandro Benvenuti è uno dei più originali e significativi personaggi emersi in Italia in quel caleidoscopico contenitore di talenti che furono gli Anni ’70.
Dopo il fortunato esordio cabarettistico nei Giancattivi, fondati insieme ad Athina Cenci e assurti al successo nazionale dopo l’ingresso di Francesco Nuti, egli ha cementato un’eclettica carriera in proprio caratterizzata da produzioni d’alta levatura intellettuale ma pure ammantate da una commovente e mai retorica umanità. La comicità dell’attore fiorentino è costellata da prove attoriali di indubbia grandezza (citiamo nel mucchio “Mia zia e io” di Morris Panych, successo del 2012 in coppia con una superba Barbara Valmorin), commedie di proprio pugno che assurgono allo status di classici del teatro contemporaneo (la trilogia della famiglia Gori scritta a quattro mani con Ugo Chiti tra il 1987 e il 2006) come interessanti operazioni ibride di teatro e musica (“Capodiavolo” del 2009). A ciò si aggiungano le attività di direzione teatrale (Teatro Humor Side-centro sperimentale della satira di Rifredi) e di direzione artistica (Teatro Comunale di Cavriglia, Teatro Puccini di Firenze e Teatro Comunale Dante di Campi Bisenzio); dal 2013 dirige il Teatro Tor Bella Monaca (Roma) e dal 2015 il Teatro Comunale Mario Spina di Castiglionfiorentino (AR).
E poi c’è il cinema, con una serie di titoli che hanno saputo reinventare la commedia italiana secondo un registro popolare ma dall’altissimo tasso creativo. Se l’esordio nel 1982 “Ad ovest di Paperino” incarna le migliori istanze del racconto di formazione, consegnando una pellicola comica che per atmosfere si avvicina però alla grandezza del Wim Wenders in “Falso movimento”, grazie a un film come “I miei più cari amici” il Benvenuti regista ne esce come una sorta di Orson Welles della commedia italiana; qui, infatti, ogni scena è cesellata da riprese originali eppure funzionali, ogni location stupisce per una ricerca visiva quasi maniacale, ogni battuta si inserisce all’interno di una sceneggiatura complessa ma nondimeno fruibile, con momenti di risate intrattenibili e attimi di poesia cristallina. Per non parlare dell’affilato sguardo sociale raccontato in “Zitti e mosca” o di tematiche più delicate quali i disturbi mentali e l’omosessualità, narrati rispettivamente con “Ivo il tardivo” e “Belle al bar”. La carriera di Benvenuti, insomma, era ed è un’opportunità unica che lo spettatore curioso non deve mancare di seguire, un esempio su cui l’aspirante attore, commediografo o registra farà meglio a confrontarsi per scoprire se e come contribuire coniando un proprio linguaggio personale.
Alessandro, quali sono stati i numi tutelari della sua comicità negli anni di formazione? Non trovo riferimenti a mostri sacri come Manfredi, Tognazzi o Sordi…
Non ho effettivamente avuto dei modelli italiani, pur amando la vitalità, la naturalezza e la “leggerezza pesante” con la quale Totò e Peppino De Filippo sono riusciti a raccontare l’Italia del loro tempo. I miei riferimenti derivano piuttosto dal futurismo, dal surrealismo, dal dadaismo, dalla comicità di Buster Keaton, di Charlie Chaplin e, perché no, di Stanlio e Olio. Aggiungerei inoltre Ionesco, Beckett e la satira pungente di Lenny Bruce.
Come funziona la sua lunga e fortunata collaborazione con lo scrittore e regista Ugo Chiti?
Nella nostra collaborazione io mi ritengo un “portatore sano di soggetto”, così come lui è più “strutturalista” rispetto a me. Si tratta di un lavoro d’equipe svolto a quattro mani secondo un equilibrio perfetto. Ugo è stato l’autore che mi ha portato a innamorarmi della lingua toscana; prima di lui e dell’ingresso di Francesco Nuti nei Giancattivi avevo scritto esclusivamente testi in italiano.
Un’altra collaborazione preziosa è con sua moglie, Chiara Grazzini.
Sì, lei mi è fondamentale nelle regie e soprattutto negli adattamenti di testi da lingua inglese. Chiara infatti riesce a dare compiutezza alla riscrittura dei testi come se fossero stati scritti in italiano. E poi è un punto di riferimento per tutti i miei dubbi; posso sempre contare sulla sua capacità di capire dove sono i momenti di stanchezza in un determinato testo. Il suo contributo più evidente sta in un lavoro che portiamo avanti ormai da sei anni e di cui in parte è autrice: “Un comico fatto di sangue”.
Nel suo cinema è evidente un’estrema attenzione ai dettagli. In quali titoli crede che questo aspetto abbia portato i risultati più fruttuosi?
In realtà io vedo solo i difetti di quello ho fatto. Ritengo di aver realizzato dei film, questo sì, accomunati da una certa coerenza artistica. L’attenzione per i dettagli deriva dal fatto che un film è un gioco che costringe a un’estrema intelligenza, un’operazione che implica un controllo totale di quello che fai. Per me è parte della normalità. In un’inquadratura, se c’è una cosa che non ha senso, l’intelligenza automatica dello spettatore la percepisce subito. E questa vale per le riprese, la recitazione, le pettinature degli attori ecc. Non vedo come si possa fare un’opera cinematografica senza tener conto di ogni minimo aspetto.
Come giudica a posteriori il lascito dei Giancattivi?
Si è trattato di una scuola importantissima per la mia formazione. Lì ho sperimentato le mie capacità di attore. Athina fu la mia prima musa, la prima a spingermi a migliorare la mia scrittura. Lei era stata nelle più importanti compagnie del teatro di base fiorentine, là dove si sono formati i massimi registi fiorentini di allora.
La sua abilità di regista e autore ha permesso alla Cenci di donarci alcune delle sue più alte interpretazioni, con personaggi superiori per intensità a quelli contenuti nelle pellicole, ad esempio, di Verdone, Monicelli e i fratelli Taviani…
È una donna unica, di grande fascino e personalità, che possiede un imprinting da tragedia greca già dalle forme, dal viso, dalla qualità della voce. Una persona, già ai tempi dei Giancattivi, estremamente adulta, ma con questa cattiveria da bambinaccia, una sorta di “dissacrante infanzia” che è propria dei grandi. Pensi a Carmelo Bene che fa “Pinocchio”: se lui non fosse stato un bambinaccio fino alla fine dei suoi giorni, non sarebbe stato credibile in quel ruolo. È questa una condizione micidiale poiché, a ben guardare, non c’è nulla di più cattivo dei bimbi, perché sono sprovvisti di mediazioni.
Quale è il suo punto di vista rispetto al cinema di Nuti ?
Francesco ha sempre posseduto grandi potenzialità attoriali. Se i Giancattivi hanno avuto successo, molto è stato merito della feroce volontà di Francesco di farcela. La sua era una faccia che “buca lo schermo”, uno di quei volti capaci di creare col pubblico un’empatia immediata. Poteva certamente dare di più se non fosse stato posseduto dal desiderio di essere un autore e un regista. Ecco, dal punto di vista della regia, non ho grande opinione dell’estetica di Francesco. Non ha mai esternato un suo stile vero, quello che vedo anche nei suoi film più noti è una miscellanea di stili presi da altri. Non trovo uniformità. Un film che adoro è “Tutta colpa del paradiso” ma, se ci fa caso, c’è un primo quarto d’ora che può essere tranquillamente tolto e dopo il quale segue invece il resto in cui si respira un’atmosfera di pura grazia.
Dopo il successo a teatro col “donchisci@tte” da un testo di Nunzio Caponio e per la regia di Davide Iodice, ora è a teatro con “L’avaro” di Molière. Quali sono le specificità del suo Arpagone?
Abbiamo debuttato pochi giorni fa, si tratta di una produzione Arca Azzurra per la regia di Ugo Chiti. Il mio è un Arpagone molto particolare, di una tonicità che non ho mai visto neanche negli esempi più alti. Ugo ha puntato su un Arpagone modernissimo e assai dinamico, nonostante il protagonista si presenti tra tosse e raffreddore per fingere debolezza. Devo constatare che si tratta di uno spettacolo di grande forza, capace di coinvolgere il pubblico.
È possibile essere grandi attori di teatro ma risultare inadatti per il cinema e viceversa?
Certo, si tratta di due codici completamente diversi. Per il cinema non puoi essere naturale. In teatro invece bisogna giocare continuamente e anche la “partitura” più barocca deve risultare naturale.
Cosa ricorda della realizzazione del suo sorprendente esordio cinematografico “Ad ovest di Paperino”?
Fu un’esperienza tormentatissima. Durante le riprese Francesco ebbe un cedimento nervoso. Dalla terza delle sei settimane previste dalla produzione fu uno strazio totale. Fortunatamente potevo contare su una troupe di grandissima esperienza, che intuì che non ero un “parvenu” del cinema e mi aiutò, comprendendo le condizioni psicologiche in cui lavoravo a quel film.
Cosa detesta del mestiere di attore e regista?
Nulla. Lo faccio molto volentieri, perché credo nella vita. Per me entrare in scena è fare un regalo alle persone che hanno voluto acquistare il biglietto. È un’avventura meravigliosa. Lo faccio con grande passione, perché ho grandi aspettative per il futuro. Sono molto ambizioso da questo punto di vista e voglio essere sorprendente e abbastanza indimenticabile! Credo sia un atteggiamento giustissimo, che protegge lo spettatore che ha pagato per vedermi. Detesto solo la stupidità e quando il narcisismo ti mangia vivo e ti fa perdere i confini dell’intelligenza.
Parlando del “piccolo schermo” perché oggi la televisione di un Enzo Trapani sembra impossibile?
Il problema è che c’è tanta richiesta. Negli Anni ’70, se andavi in televisore eri necessariamente il numero uno, anche se poi eri appoggiato da una figura potente della politica. Non potevi accedere se eri semplicemente simpatico, c’era una selezione naturale. Ora la programmazione dura per tutto il giorno e la notte, per non parlare del proliferare delle reti disponibili. Oggi si sono aperte le gabbie e chiunque può andare in televisione e dire quello che vuole.
Vista la mancanza di meritocrazia e il declino culturale e morale degli ultimi quarant’anni, esisteranno nel futuro grandi maestri delle arti?
Credo di sì, perché sono un ottimista e penso che la storia segua i suoi corsi e ricorsi. Ora più si è cialtroni e si parla in maniera prepotente senza ascoltare le ragioni dell’altro e maggiore è la popolarità che se ne ricava, un fatto che è diventato ormai sistema. Diciamo che non è un grande momento per gli animi nobili. Però le assicuro che ci sono tante persone che magari non fanno audience ma che si battono per avere qualcosa di meglio. Sono ottimista al riguardo, anche se oggi va di moda la paura.
Cosa crede abbia condotto un talento anarcoide come quello di Roberto Benigni alla propria istituzionalizzazione?
Quando lo programmavamo nelle Feste dell’Unità, tanti nostri colleghi ce lo contestavano, ma noi replicavamo: “Questo farà strada”. Sapevo che sarebbe diventato importante. Personalmente ritengo che il suo capolavoro resti il “Cioni Mario di Gaspare fu Giulia”, uno spettacolo sconvolgente. Lo devo ringraziare anche per la trilogia della famiglia Gori: Scrissi “Benvenuti in Casa Gori” proprio perché non volevo rassegnarmi all’idea che ci fosse qualcuno così tanto più avanti di me. Poi ha avuto una grande fortuna, ha fatto tanti soldi e, beh, non è una cosa facile da gestire. A me francamente di raccontare la bellezza dell’inno di Mameli non me ne importa nulla, preferisco parlare di cose di tutti i giorni. Sono scelte. Certo non potrà più fare il “Cioni Mario di Gaspare fu Giulia”, mentre io potrò continuare fin che voglio a riproporre “Benvenuti in casa Gori”.
Qual è il talento più evidente di Alessandro Benvenuti?
Quando decido di fare delle cose che mi riguardano, viene fuori il desiderio di rischiare sempre: è quello che mi salva e mi inorgoglisce.