La donna dal X Comandamento alla Costituzione
“Il viaggio di una donna di spirito” di Giacomo Bonfìo ci offre un’occasione prelibata: gustarci una riflessione sulla donna - tra cultura, società e, naturalmente, teatro – scritta dalla penna pepata del drammaturgo Luigi Lunari. Nella sua acuta analisi, il critico e storico del teatro getta un ponte che va dal Decimo Comandamento fino alla Costituzione italiana (alla quale ha di recente dedicato il saggio “La Costituzione italiana, ovvero Settant’anni dopo”, Book Time editore – Milano, 2017), andando a scovarvi e analizzarvi i riferimenti al gentil sesso...
di Luigi Lunari
È innegabile: una forte differenza c’è, a partire dal giorno in cui Mosè discese dal Monte Sinai, latore di un codice “senza se e senza ma”, di cui si definiva “garante”… fino a quel 25 giugno del 1946 in cui 556 rappresentanti del popolo italiano si raccolsero per stilare quel nobile monumento che è la nostra vigente Costituzione.
Tra i tanti fili conduttori che potrebbero illustrare quella impressionante evoluzione, optiamo qui per la “storia della donna”: tema dominante nel nostro mondo globale, che, tra razze, religioni, culture, usi e costumi diversi, stenta a trovargli una pacifica e soddisfacente soluzione.
Per il Decimo Comandamento, non c’è problema: con la caratteristica galanteria della vecchia cultura biblica la donna è una “cosa”, simile all’asino e al bue, senz’anima e senza autonomia, che il maschio – unico destinatario dei comandamenti stessi – ha il solo dovere di non desiderare ove appartenga a un altro. Una tesi da cui la Nuova Alleanza d. C. si liberò con un colpo di scena di straordinaria efficacia e di altrettanta ipocrisia. La donna rimaneva sì un essere inferiore, schiava dell’uomo, ma “una” di esse, veniva elevata al di sopra di tutti, maschi e femmine: immacolata, immortale, assunta, vergine e madre, temperatrice pietosa della severa giustizia divina, destinataria di litanie lussureggianti e fantasiose… Poi, se andate a vedere le fotografie di un concistoro o di una riunione della CEI, di donne neanche l’ombra. C’è “Lei”, là sopra, sul gradino più alto del podio: cosa volete di più?
Tuttavia, altrettanto innegabilmente, la formula di una endemica soggezione della donna all’uomo ha funzionato – nella nostra società occidentale – praticamente fino all’altro ieri. La struttura familiare prevedeva la donna a casa, a curare figli e fornelli, l’uomo fuori, a lavorare e a provvedere al resto. Le eccezioni erano ammesse, sì: c’erano le sante (da Giovanna d’Arco a Caterina da Siena), le regine (da Elisabetta I a Maria Teresa d’Austria), le scrittrici (da Madame de Scudéry a Jane Austen), le “borderline” come Aphra Behn e George Sand… ma si tratta appunto di eccezioni; la regola essendo quella di una soggezione all’uomo, del resto perfettamente funzionale. Anche sotto il profilo culturale, la donna – come dice il “vecchio” Crisalo in una ambigua commedia di Molière, “Le donne sapienti” – «ne sa quanto basta per i suoi bisogni / se distingue la giacca dai calzoni».
Ma prima di riprendere il tormentato cammino verso l’Articolo III della Costituzione, l’accenno a Molière ci rimanda utilmente a un mondo che è come un’oasi, un’enclave, una zona franca rispetto alla situazione generale. Questo mondo è il teatro: dove vi sono davvero – tra uomo e donna – un’eguaglianza e una parità di diritti e di occasioni che il resto del mondo ignora. È il grande capitolo della commedia dell’arte e delle sue compagnie, dove regna una promiscuità che già di per sé appare scandalosa alla ben scandita società del medioevo, che in effetti ne mette al bando i componenti: scomunicandoli, negando loro i diritti civili e il diritto stesso di cittadinanza… Ma per ciò stesso favorendone lo sviluppo lungo una linea di logica eguaglianza e di effettiva competitività. Qui sì, su quel rozzo palco eretto nelle piazze dei mercati, la donna si confronta da pari a pari con l’uomo, sempre sconfiggendolo grazie alla sua bellezza, alla sua giovinezza, al suo brio. È una lunga parentesi, ma pur sempre una parentesi. Tra il Sette e l’Ottocento il perbenismo illuministico prima e borghese poi renderà perbene anche il teatro: accadrà, al massimo, che il buon rentier parigino negherà a un attore la mano della propria figlia, e che un figlio di famiglia che sceglieva di fare l’attore assumerà – per quieto vivere – un cognome diverso da quello paterno. Storie d’altri tempi? Mica tanto, se lo scotto dovette pagarlo anche Camillo Migliori, in arte – per l’appunto – Camillo Milli, felicemente vivente.
Lasciata l’oasi e ripreso il cammino, la storia è un elenco di faticose conquiste: solo nel 1919 in Italia viene abolita l’autorizzazione maritale, che nel Codice del 1865 vietava alla moglie di disporre dei propri beni e di stare in giudizio, lasciandole come unica libertà quella di scegliere se sposarsi o farne a meno; solo nel 1946 viene ammessa al voto, solo un anno dopo (1947) la nuova Costituzione riconosce, nell’Articolo III l’eguaglianza di “tutti i cittadini… senza distinzioni di sesso”. “Mission accomplished” sembrerebbe di poter dire. E invece no. Ancora una legge del 1975 (n.151) elimina la dipendenza “morale” (?!) della moglie nei confronti del marito, sancisce l’obbligo della fedeltà e della coabitazione, introduce la comunione legale dei beni, riconosce il valore del lavoro casalingo, estende alla donna la patria potestà.
Benissimo! Ma il guaio è che nel frattempo l’evoluzione dei costumi ha innestato il turbo, e il dettato della 151 sembra un reperto archeologico all’ombra del “c’era un volta e ora non c’è più”. La donna ha fatto strada: ha occupato settori cruciali della nostra organizzazione sociale, ha monopolizzato l’insegnamento primario e l’infermieristica, sta monopolizzando la magistratura… Quale che sia la sua presenza nelle foto citate più sopra, essa è oggi più che mai motore della società. Solo la Chiesa cattolica rimane legata alla diseguaglianza sessista, con l’affermazione – che Francesco riprende da Giovanni Paolo II – che l’ordinazione della donna è «una porta chiusa per sempre». Ma per il resto… hai voglia! E il giorno che la donna getterà sul piatto della bilancia il fatto che è lei a garantire la continuità della specie, e minaccerà di incrociare le gambe, come Lisistrata ma per ben altre funzioni… ebbene: trippa per gatti non ce ne sarà più! Il coltello per il manico ce l’ha lei, e noi maschietti dovremo organizzarci per la tutela dei nostri diritti.
Un sola aggiunta, di carattere pratico, a cui il sottoscritto tiene peraltro in maniera particolare. In un mio commento all’articolo III ho sottolineato come la dichiarazione di eguaglianza «…senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» sia del tutto insufficiente e sbagliata.
E così scrivevo (come qui ripeto): «Tutte queste equiparazioni riguardano esseri umani biologicamente “identici”, al di là del fatto di essere più o meno ricchi, più o meno colti, di parlare questa o quella lingua, di credere in questo o quel dio, di aderire a questa o quella ideologia politica, di essere omo o etero. Solo la questione del sesso coglie una differenza oggettiva tra gli interessati: essere maschio o femmina non è la stessa cosa che essere cristiano o musulmano, conservatore o progressista. Uomo e donna, maschio e femmina eguali non sono! Questo afferma quella realtà della natura che precede di molto ogni codice stilato nel corso della storia. È possibile che una Costituzione moderna e aggiornata non prenda atto di questa situazione, nascondendosi dietro il dito della “parità dei diritti”?
Che senso ha parlarne per categorie di persone così diverse per caratteristiche e funzioni?
Il fondamentale e cruciale punto di incontro dei due sessi è naturalmente nella procreazione: il fatto della pari indispensabilità dell’uno e dell’altro non basta ad equiparare le funzioni di maschio e femmina. Non si ospita per nove mesi una “persona” in fieri nel proprio ventre, costruendola giorno per giorno secondo una misteriosa inconscia cultura che riassume l’intera filogenesi della specie umana, senza che questo crei un rapporto tra madre e figlio qualitativamente imparagonabile a quello del figlio con il padre.
Come si possa formulare il tutto in un dettato costituzionale, confesso di non sapere. Ma il fatto esiste. E per non fare che un esempio, rallacciandomi al tema di attualità della stepchild adoption, constato nel sottoscritto una serena accettazione della possibilità che un bambino abbia due madri, e una forte contrarietà all’idea di un bambino con due padri.
Con il che penso che, pur da questa sommaria storia, la donna emerga vincitrice assoluta. Come, del resto, ampiamente previsto.