L'intervista
Mariella Fabbris
e il senso del teatro
di Filippo Bordignon
Basterebbe aver assistito a una rappresentazione del suo Cibo angelico per comprendere la caratura artistica di Mariella Fabbris. La formula è tanto semplice quanto stupefacente: l’attrice settimese mette in scena il racconto I volatili del Beato Angelico di Antonio Tabucchi e, durante la narrazione, prepara un piatto della cucina povera per gli spettatori. Le location sono le più disparate purché con una cucina attigua: dall’agriturismo alla fattoria didattica, dalla casa privata ad alberghi stellati.
L’invidiabile tecnica recitativa della Fabbris, unita a un talento personale bagnato alle sacre fonti del carisma, fanno del Cibo angelico una lezione di teatro originalissima che sfocia nella performance e nell’happening. La totale naturalezza con la quale l’attrice manovra le materie prime inoltrandosi al contempo nella narrazione incanta lo spettatore di ogni età e determina, a seconda della circostanza, un esito imprevedibile ma sempre entusiasmante che risulta più coraggioso di tanto teatro di ricerca contemporaneo.
La biografia della Fabbris, cofondatrice di quel Laboratorio Teatro Settimo che dalla fine degli Anni ’70 al 2000 fu una delle esperienze più significative del teatro italiano, vanta felici ramificazioni nelle vesti di regista, drammaturga, sceneggiatrice per docufilm, attrice per il cinema e insegnante in laboratori certamente consigliabili a chi voglia forgiarsi attraverso l’esempio di un Maestro maiuscolo.
Travolgente, imprevedibile, sempre vestita da un dettaglio di rosso, la Fabbris è un’intellettuale col sorriso, una donna che ha calcato i palcoscenici di mezzo mondo come pure le fabbriche, le scuole e ogni luogo in cui è richiesta la sua apparentemente inesauribile energia. Chi ne ha testato il valore artistico sa bene che i suoi spettacoli sono esperienze multi-sensoriali che impiegano il teatro come punto di partenza per un discorso sull’essere umano di rara profondità.
Mariella, dopo gli gnocchi cucinati a suon di Tabucchi ora cosa bolle in pentola?
Sto preparando un altro racconto tratto dal romanzo La perla di John Steinbeck, e questa volta serviremo una pietanza a base di fagioli.
Qual è il volto di Settimo Torinese nel 2019?
Questo è diventato ufficialmente un luogo dell’andare e venire grazie soprattutto all’esperienza con Teatro Settimo che, con le sue rappresentazioni, si è spinto fino in Australia. Un tempo questa era una cittadina meramente industriale ma oggi è divenuta un polo culturale particolarmente significativo. Ho sostenuto l’impegno politico di una donna preparata e dotata di sensibilità e cultura, Elena Piastra, già vicesindaco e assessore all’istruzione (il 9 giugno, al ballottaggio, la Piastra è stata eletta primo sindaco donna di Settimo Torinese, ndr). Al tempo è stata una delle molte ragazze che ha frequentato i nostri laboratori teatrali. E poi ci sono tante idee che intendo concretizzare nel futuro prossimo come, ad esempio, un allestimento de La bottega del caffè di Goldoni intersecato alle storie di persone anziane. In generale ciò che più mi preme è creare una rete di relazioni umane che mi permetta di non restare mai sola.
Perché la Compagnia fu sciolta nel 2000?
Per un guasto interno, una perdita di denaro che riuscimmo comunque a risanare dopo quattro anni e che fu dovuta alla cattiva amministrazione di una persona.
C’è un progetto particolarmente interessante che ha recentemente presentato a Futuro Remoto, il festival della scienza di Napoli.
Si tratta di Cellule fatte scienza, un lavoro derivato dalle mie conversazioni con alcune biotecnologhe che, impiegando un linguaggio semplice, parla delle “materie prime” con le quali sono costituite le nostre vite. Un’esperienza che mi ha insegnato moltissime cose.
Qual è la sua opinione rispetto al neo-femminismo dei giorni nostri?
Una delle tante cose che ho imparato durante la preparazione di Cellule fatte scienza è la seguente: condividiamo tutti un Dna identico al 99%. Siamo diversi solo per un semplice 1%.
Nel mondo globalizzato, là dove le differenze tra metropoli e città di provincia sono sempre più sottili, l’esperienza del viaggio è ancor importante?
Sì. Che tu faccia l’attore o la cassiera del supermercato guardare il mondo da vicino e in maniera aperta resta una possibilità preziosa. In questo modo si sviluppano più occhi e orecchie per vedere e sentire in maniera profonda. I ragazzi di oggi lo hanno compreso e non viaggiano da turisti: prendono con sé un trolley, i loro amici e vanno a creare le proprie esperienze. Similmente mi comporto nel mio mestiere di attrice: non ho un agente e, anche grazie a questo modo di pormi con le persone, quando arrivo in una nuova città vengo accolta con quel misto di curiosità ed energia generate dall’arrivo di un parente lontano.
Cosa si propone nei suoi laboratori?
Ho terminato alcune settimane fa una master class a Vicenza, un appuntamento a cui hanno partecipato professionisti, amatoriali e neofiti dai 12 ai 70 anni. Ogni esperienza rappresenta la possibilità di misurarsi con le parole, saperle dire.
Cosa l’ha spinta al teatro?
C’è un ricordo di quando ero bambina: solitamente i miei genitori durante il periodo estivo mi portavano in vacanza al mare e ci dividevamo tra le spiagge del Veneto e della Calabria. Un anno però mi mandarono nell’orribile Colonia della Fiat. Fu tale la mia infelicità che restai ammalata tutto il tempo perché non potevo vivere il mare in tutta libertà. Stavo spesso, febbricitante, in infermeria e quando i miei compagni venivano a salutarmi dal retro dell’infermeria mi prodigavo per loro in una serie di personaggi. Mi sono ritrovata a fare cose che non avevo mai fatto e li coinvolgevo nelle mie improvvisazioni. Quello fu l’inizio. La recitazione si concretizzò, anni dopo, come risposta all’atmosfera che si respirava a Settimo e che rischiava di fare di noi una generazione alienata. Noi, al contrario, volevamo salvarci e salvare le vite altrui attraverso, appunto, un teatro “di vita”.
Qual è il ruolo più significativo del teatro nel 2019?
Sondare universi inesplorati inaugurando nuovi percorsi possibili. Quel che mi preme sottolineare è che, dal mio punto di vista, l’attore è in primis un importante veicolo culturale. Ma va fatto un distinguo: quando lei parla di teatro può riferirsi all’istituto teatrale, il quale a ogni latitudine ha compiti e doveri ben precisi. Ma il teatro sono anche le persone nella loro totalità e le persone possono essere portatrici di infiniti significati. Dispiace sentire ragazzi promettenti che trascorrono le giornate in attesa della chiamata dal Maestro in voga. Si deve avvertire invece l’urgenza di agire da subito, si deve sentire il bisogno di far propria quest’arte e diventare messaggeri di cultura. Noi attori siamo in potenza più forti di uno psicologo, inoltre partiamo avvantaggiati poiché non ci rapportiamo alle persone chiamandole “pazienti” o “clienti” o “utenti”.
Cosa rende grande un attore?
Domanda complessa. Mettiamola così: per interpretare efficacemente Shakespeare non è importante far leva sul tecnicismo durante la rappresentazione, quanto piuttosto comprendere appieno i sentimenti universali che egli ha evocato per noi.
Cos’è il teatro?
Una scatola vuota ma piena di senso.