Cultura
Einstein on the Beach
Capolavoro (in)discusso
di Filippo Bordignon
Lo straordinario trionfo di pubblico dell’opera di Teatro Musicale Einstein on the Beach al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia nel 2012 racconta più di tante parole la validità di un “oggetto artistico” tra i più brillanti e complessi prodotti nella seconda metà del Novecento. A 36 anni dalla sua prima, avvenuta in Francia il 25 luglio 1976 nell’ambito dell’Avignon Festival, l’Einstein sulla spiaggia conferma il genio del suo ideatore, il regista Robert Wilson, così come dell’uomo che ne scrisse le musiche, il compositore Philip Glass.
Questa coppia artistica tutta statunitense tornerà a collaborare in altre produzioni per il teatro: Satyagraha (del 1979, dedicata al Mahatma Gandi) e Akhnaten (1984, sulla vita dell’omonimo Faraone vissuto nel 1300 a.C.) completeranno la cosiddetta Trilogia dei ritratti ma, pur confermando la bontà artistica della partnership Wilson/Glass, risultano meno sorprendenti, meno totalizzanti rispetto alla loro prima opera a quattro mani.
Quali sono le peculiarità che fanno dell’Einstein on the beach uno dei lavori apripista del teatro musicale moderno e contemporaneo? In che modo la musica minimalista si appropriò del linguaggio operistico stravolgendone i canoni e coniando uno stile oggi imitato da alcune delle principali compagnie di teatro sperimentale nel mondo?
La musica minimalista
Va data innanzitutto una definizione di “musica minimalista”, trattandosi di un genere derivato dalla classica contemporanea (talvolta definita “seria”), un approccio scelto da Wilson poiché squisitamente abbinabile alle sue visioni “riduzioniste”. Si tratta di musiche che impiegano per ogni forma di organico, dallo strumento solista all’orchestra, brevi frasi melodiche e ritmiche ripetute ciclicamente, creando una sensazione simile all’ipnosi dei raga indiani.
Il minimalismo è un movimento nato e sviluppatosi inizialmente negli Stati Uniti durante la seconda metà degli Anni ’60, risposta ideale all’eccessiva difficoltà di ascolto del serialismo europeo di Anton Webern. In una discoteca ideale i nomi imprescindibili sono almeno quelli di Terry Riley, Steve Reich e, appunto, Glass. Se a un primo ascolto tali musiche possono sembrare ripetitive, a un’analisi attenta rivelano permutazioni continue di dettagli timbrici, armonici, melodici; cambiamenti talmente lenti o talmente veloci, insomma, da venir percepiti solo mediante un ascolto concentrato.
L’esperienza di Wilson
Regista, drammaturgo ma anche coreografo, videoartista e designer Wilson giunge a New York dal Texas nei Seventies recando con sé l’esperienza di lavoro con bambini portatori di handicap. La sua infanzia, trascorsa nell’abbraccio della timidezza e della balbuzie, ha stimolato in “Bob” una creatività privatissima che egli saprà tradurre in immagini d’impatto impiegando pochi elementi. La sua estetica, oggi come agli esordi, può venire considerata una sorta di minimalismo visivo, il trionfo dell’enunciato secondo cui less is more (meno è più).
L’incontro nel 1973 con Glass, fresco di registrazione del suo leggendario Music in twelve parts, significherà per i due la nascita di uno stile oggi ormai assimilato dal teatro contemporaneo, uno stile che però troppo spesso viene imitato con spettacoli spartani e spogli che pretendono infruttuosamente di replicare l’essenzialità del duo.
Fortunatamente la videoripresa integrale (l’unica, a oggi) presso il Théâtre musical du Châtelet di Parigi nel 2014 restituisce una versione fedele dell’originale, resa di maggiore fruibilità grazie a un montaggio relativamente serrato e forte di un opportuno impianto di amplificazione che rende al meglio il valore delle musiche e delle parti cantate/recitate. Sulla base di questo prezioso materiale audiovisivo possiamo tracciare alcune considerazioni per puntualizzare la rilevanza culturale e artistica dell’Einstein on the Beach.
Un’analisi dell’Einsten on the Beach
Letto nella sua interezza (circa quattro ore e mezza) il lavoro vanta la grandiosità dell’opera lirica ma ne rifugge completamente l’impianto strutturale. In opposizione alla blasonata tradizione europea Wilson/Glass imbastiscono una storia in assenza di storia: il libretto, affidato al poeta Christopher Knowles e agli attori Lucinda Childs e Samuel M. Johnson, consta di parti monologiche disinteressate a tracciare l’ossatura di una vera e propria vicenda. Quel che lo spettatore deduce deriva dalle scenografie che comprendono un tribunale, una stazione ferroviaria (rappresentata dalla sagoma della testa di un treno a vapore), un edificio e l’interno di un’enorme nave spaziale.
Lo spettacolo inizia con due personaggi che, seduti a delle scrivanie stilizzate, recitano una sequenza numerica con lo sguardo fisso davanti a sé. Assolutamente atipici i costumi di scena, quasi per tutti i personaggi una camicia bianca e un paio di pantaloni scuri sorretti da bretelle. La mancata identificazione mediante i costumi (con l’eccezione eclatante dei giudici nel tribunale) rende ancora più spersonalizzata la recitazione, che prende a prestito l’antinaturalismo di Brecht calandolo in un contesto post-moderno. L’espressività caricaturale di certe espressioni facciali e di alcuni movimenti coreografici (rallentati allo spasmo o velocizzati secondo i criteri di un teatro-danza totalmente astratto) amplifica uno straniamento quasi comico, allegoria di una società alienata all’interno della quale si ostina a fiorire una qualche forma di poesia.
Per ovviare ai complessi cambi di scenografia Glass predispone degli inserti musicali di raccordo denominati Knee in cui vengono toccati picchi di isteria grazie a tempi sostenuti e ad assoli di frasi melodiche elementari ma variate di battuta in battuta. Le luci sono “disegnate” giocando su forme geometriche piane molto semplici ma prossime alla light art: un sottile rettangolo bianco su sfondo blu, un funereo trapezio blu su sfondo nero o, di per contro, un’accecante intermittenza di luci oro nella scena della nave spaziale.
Oltre a intere sezioni di libretto dedicate a sequenze numeriche sono proposti monologhi/flussi di coscienza da parte delle voci protagoniste sormontati da musiche incalzanti che li rendono un incomprensibile ciarlare di sottofondo. Di quando in quando, all’interno dei quattro atti in cui è suddiviso idealmente il lavoro, compare un musicista che, munito di parrucca, veste i panni di un Einstein violinista dilettante, producendosi in un assolo senza uno sviluppo reale. Unica concessione a un minimo di senso logico la scena del tribunale in cui i due giudici (un uomo e un bambino) scandiscono più volte la frase “Questa Corte si aggiorna” salvo poi fare una boccaccia al pubblico.
Un’inossidabile forza innovativa
Teatro contemporaneo, arte performativa, teatro danza: a quarantatré anni dalla prima messa in scena Einstein on the beach non ha perso il suo smalto irriverente e innovativo. Negando al libretto non solo il sentimentalismo patetico su cui vengono edificate le più celebri opere liriche ma una qualsivoglia trama da seguire, si è sposata la rivoluzione letteraria inaugurata da James Joyce ed Ezra Pound e proseguita a teatro da Samuel Beckett. Appiattendo la voce delle cantanti soprano e del tenore a una glaciale interpretazione monocorde di numeri e frasi in libertà, si sono accantonati secoli di “belcanto” in favore di una voce liberata dal giogo di una tecnica standardizzata. Introducendo il minimalismo nei costumi, nelle scenografie e nel disegno delle luci si è consentito l’ingresso dell’arte contemporanea nei teatri lirici di tutto il mondo. Ideando partiture costituite prevalentemente di pattern in permutazione sono state defenestrate le strutture tipiche della musica classica e della narrazione in generale, sicché il lavoro può essere fruito dall’inizio alla fine ma anche da qualsiasi altro punto.
Capita ancora che alcuni spettatori abbandonino il teatro, scoraggiati dalla radicalità dell’opera. La certezza è che, tra cent’anni, questo Einstein starà ancora sulla spiaggia esercitandosi al violino per ore e ore senza che, intorno a lui, accada qualcosa di particolare rilievo. Wilson ha rinunciato al pathos e alla maggior parte dei cliché utili a mantenere alto l’interesse dello spettatore, per restituirci le nostre vite nel fulgore poetico del loro tran tran. Un’intuizione che ha creato un classico immortale ancor oggi restio a venir catalogato e compreso.